Vi gettò due monetine...
8 novembre 2009
Fare verità su ciò che siamo ci aiuta a vivere meglio
Al tempo del Seminario, tra la terza e la quarta teologia, il rettore (mons. Lucio Cilia) ha chiesto a me e al mio compagno di classe, don Claudio neo-cappellano al Duomo di san Lorenzo a Mestre, di fare un’esperienza in Romania assieme al direttore della Caritas Veneziana, il più famoso mons. Dino Pistolato, come ulteriore preparazione al ministero dell’accolitato che avremmo ricevuto il novembre successivo.La cosa ci piacque, e così nel bel mezzo delle vacanze estive partimmo alla volta di questa terra sconosciuta - la Romania - per una più sconosciuta destinazione e cioè la città nella quale dovevamo operare, Slobozia.
Ricordo come interminabile quel viaggio per il quale avevamo a nostra disposizione un furgone e un camper (per dire il vero non molto nuovo, tanto che al ritorno ci ha lasciati a piedi lungo l’autostrada austriaca...) che sono stati la nostra “casa” per le trentadue ore di viaggio, il tempo necessario per raggiungere la nostra meta.
Arrivati in Romania a notte inoltrata, ci accolse il parroco, una sua aiutante (poi diventerà buona amica di Caritas Veneziana fino alla sua morte avvenuta non molti anni dopo) e una suora: li infatti c’è una comunità di Suore Dorotee, ed è proprio grazie a loro che siamo arrivati a conoscere la realtà romena.
Una delle cose che ricordo e che allora mi lasciò stupito oltre alla povertà estrema di quella terra, è la grande passione che queste suore mettevano - e mettono - nel servire questa gente, senza curarsi della stanchezza, del freddo, del caldo; senza fare preferenze di persone e senza chiedere nulla in cambio.
Mi è capitato di sentire qualcuno che diceva che i missionari fanno quello che fanno per “guadagnarsi” fedeli, per fare proseliti...niente di più stupido e sciocco: quello che fanno i nostri missionari (e credo di poterlo dire per tutti) è far vivere l’incontro con Cristo nella quotidianità della loro vita, dei loro incontri, del loro tempo.
E io ero ammirato nel vedere queste quattro suore che correvano da una parte all’altra del quartiere nel quale è inserita la parrocchia cattolica, parrocchia che conta venticinque famiglie, e che davano veramente tutto per il bene di persone che neppure conoscevano.
E così dalle piaghe, alle punture; dal giardino alla casa; dalle spese ai bambini; loro assieme a poche altre persone mettevano tutto a servizio dell’altro.
“Ma come fanno a vivere così?” mi chiedevo in quei giorni... la risposta, semplice e quasi sottintesa, è questa: la preghiera.
Già proprio lei, la preghiera: non una “solenne perdita di tempo”, non una formalità, un obbligo, ma un bisogno reale, un buon carburante per poter vivere e far vivere meglio. E grazie a questa loro diventavano come gli altri, non si sentivano per nulla superiori o migliori, ma donne che assieme alle altre cercano di rendere il mondo un po’ migliore ci come lo hanno trovato.
Notavo questo divario mentre leggevo il vangelo odierno: saluti, lunghe vesti, primi posti... sembrano essere le sole cose che interessano a scribi e farisei cioè a quelle persone che avrebbero dovuto testimoniare l’amore e la vicinanza di Dio. Uomini dell’apparenza e non della sostanza; uomini che fanno del loro servizio alla Verità una scusa per avere privilegi; uomini che nascondono anche le loro fatiche nel vivere la Parola di Dio, che sembrano perfetti. È un po’ la logica del “stucco e pitura,fa bea figura”, del dicono ma non fanno.
Mi domando quanto io, quanto noi a volte rischiamo di barricarci dietro a ruoli per vivere garantiti, quanto un po’ di rosso su una veste sia per taluni la meta che andava raggiunta, quanto facciamo fatica a considerarci tutti uomini poveri e talvolta confusi, o quanto ci nascondiamo dietro lotte ideologiche legate a tradizioni, a segni...
Sta iniziando in questi giorni il dibattito sul crocifisso: è giusta la sentenza che dice di toglierlo, va bene lasciarlo... ma io dove sono in questo discorso? Quanto effettivamente è importante per me? Quali sono le ragioni che nascono dalla fede mia, personale che mi dicono che è meglio una cosa piuttosto che un’altra...?
E poi c’è la figura di quella vedova: tutto quello che aveva lo butta nel tesoro: io so realmente confidare nella provvidenza? La mia fede mi apre alla certezza che tutta la mia vita è sostenuta dal Signore risorto?
Questi sono discorsi che meriterebbero una conversazione schietta, libera da condizionamenti, vera. Ma il punto è proprio questo: quanto io so giocarmi, compromettermi, rischiare per Gesù Cristo, cioè quanto io riesco a testimoniare con e nella mia vita che sono di Cristo? Chissà che un giorno non si riesca tra di noi a confrontarci veramente su questi temi, giusto per dare ancora un’ulteriore spolverata alla nostra fede, alla nostra vita.
don Luca