Speciale Honduras
15 settembre 2013
Un milione di amici
L'Hogar Don Bosco di Tegucigalpa, nato per opera del nostro ex parroco Don Ottavio Sabbadin, nel lontano 1988, continua da allora a essere un Centro di raccolta di bambini che provengono dai quartieri (barrio) più difficili della capitale dell'Honduras: Tegucigalpa.La prima volta che con Fabriano e Marina abbiamo visitato la Parrocchia “Maria Auxiliadora”, dietro il ponte Carrias, dove don Ottavio operava, un fetore di marcio ci prendeva il naso e lo stomaco. Lì in un luogo lugubre pieno di pidocchi, topi e spazzature, abbiamo avviato la prima mensa e raccolto i primi quattro bambini dalla strada. Da allora tanti volontari ci hanno dato una mano e siamo riusciti, con la costituzione dell'Associazione “Amici del CentroAmerica” ad avviare attività di sostegno a famiglie bisognose e a dare un rifugio a molti bambini. Carla ed io, avevamo già fatto un viaggio assieme verso l'Honduras. Ci siamo state nel 2000, in un momento critico della storia della nostra Associazione. Dovevamo prendere delle decisioni sull'organizzazione del Centro Don Bosco (Hogar) e sul suo futuro. Oltre al Millennium Bag la notte di Capodanno del 2000, abbiamo incontrato P. Eduardo Martin, un sacerdote determinato che ha fatto della missione la sua scelta di vita. Ha lasciato Madrid e la sua famiglia per vivere tutta la sua vita in Paesi difficili come Nuova Guinea in Africa, Colombia in America Latina, nel recupero dei ragazzi di strada dediti alla droga. Dalla Colombia è dovuto partire dopo un attentato che lo ha quasi ucciso lasciandogli i segni delle pallottole sulla schiena. E' arrivato a Tegucigalpa nel 1993 dedicandosi al recupero di ragazzi di strada e, appunto nel 2000 ha dedicato la sua attenzione e ha dato una svolta alla nostra organizzazione.
Da allora l'Hogar Don Bosco è diventato un centro di smistamento di viveri, aiuti umanitari e promozione umana. L'unica cosa che si chiede in cambio è che ci si impegni a mandare a scuola i ragazzi rimanendo loro vicine in modo da tenerli lontani dalla terribile e violenta situazione delle strade di Tegucigalpa.
Carla ed io quest'anno abbiamo deciso di ritornare assieme all'Hogar di Tegucigalpa per rivivere l'esperienza del 2000.
Siamo partite il 25 di luglio da Venezia e siamo arrivate il giorno dopo a Tegucigalpa. L'ultimo tragitto da San José di Costarica a Tegucigalpa lo abbiamo fatto in un aereo ad eliche, molto piccolo e male in arnese. E' partito da San José dopo aver atteso che la pioggia cessasse e permettesse ai piloti un decollo sicuro. Tegucigalpa, dall'alto, appare come un mare di tetti di latta. La pista di atterraggio non è più attraversata dal traffico normale delle macchine che si interrompe con un semaforo quando arriva un aereo come quando siamo arrivati la prima volta con Fabriano. Adesso c'é una “tangenziale” o anello periferico che rende la pista un poco (ma solo un poco) più lunga. Nonostante ciò, la pista di atterraggio è la più pericolosa del Centro America. E' molto corta e i freni dell'aereo stridono quando bloccano il volo a pochi metri da un burrone e una superstrada che scorre pochi meri più in basso dalla fine della pista.
Carla ed io, con un sospiro di sollievo, scendiamo dall'aereo. Siamo stanche e ci avviamo all'uscita. I doganieri ci fermano e ci chiedono di aprire le valigie perché sospettano che portiamo alimenti. Infatti, ne avevamo: semi di zucca (qualche kilo) e formaggio grana. I semi di zucca li hanno trovati subito ed io molto pronta ho detto che li portavamo ai ragazzini dell'Hogar. Non li conoscevano, o perlomeno non hanno l'abitudine di conservare e mangiare i semi di zucca. Di primo acchito i doganieri pensavano che volessimo seminarli. Velocemente ho aperto il pacchetto e ho offerto una manciata dicendo che era un frutto energetico. Dopo aver assaggiato con piacere alcuni semi con il sale, il doganiere si dimenticò di continuare a controllare. Così Carla ed io siamo uscite dall'aeroporto con il Parmigiano intatto. Il grana, in Honduras è un prodotto pregiato che costa molto. Siamo riuscite a condividerlo con tutti gli amici honduregni in una pasta fatta all'italiana.
Il primo impatto con la città è come sempre caotico. Macchine e autobus emettono fumi neri nauseabondi che escono dai tubi di scappamento rumorosissimi; il traffico perennemente in tilt. In una città di un milione e trecentomila abitanti sembra ci siano un milione di macchine. Il trasporto pubblico è vecchio e scomodo oltre che molto pericoloso. Non si può salire in un bus senza il pericolo che salgano dei “mareros” assaltando le persone e molto spesso uccidendo per rubare un telefonino o uno zaino con i pochi spiccioli, come è successo alla mamma di Susy ed Anita. Nessuno si azzarda a portare cose preziose o molti soldi con sé.
Arriviamo all'Hogar e l'aria che si respira è bellissima. Bambini allegri che ci accolgono con grida festose e uno striscione di benvenuto. I più intraprendenti sono quelli che già ci conoscono, anzi mi riconoscono perché sono stata con loro nel 2011 durante l'ultima visita. Ci chiedono di chiamarli per nome ed è un'impresa con i nomi che si ritrovano: Ismenia, Saul, Karolina, ecc.. Ma Carla ed io ci mettiamo di impegno. Alla fine, quando azzecchiamo un nome, scatta radioso un sorriso: “allora ti ricordi il mio nome!!!” Sono ragazzi che hanno fame di attenzione e di amore. Provengono tutti da situazioni difficili. Ogni domenica all'Hogar assistiamo alla Santa Messa. Siamo ad agosto e si prega per l'unità della famiglia. La prima domenica della nostra permanenza, P. Eduardo parla della famiglia e chiede ai ragazzi che non vivono con il loro papà di alzare la mano: tutti e cinquanta lo fanno. Questo è il segno dello sfacelo delle famiglie e delle difficoltà, promiscuità in cui questi ragazzi vivono. Arrivano dai quartieri più marginali della capitale, dove la malavita giovanile imperversa. Ce ne accorgiamo quando Suyapa spiega con parole crude (irripetibili), e con alcuni alcuni gesti delle mani facendo il verso ai ragazzi che pullulano le polverose strade sterrate piene di buche, fognature a cielo aperto, odori micidiali del suo quartiere, il significato di rapporti sessuali che un adolescente non dovrebbe neppure conoscere. Carolina quando si arrabbia con le amiche dice che manderà i suoi amici “mareros” a bruciare le case delle compagne e uccidere tutta la loro famiglia. Sono frasi e modi di dire che fanno parte del suo vissuto nel quartiere ed anche all'interno della famiglia.
Quasi tutti i ragazzi sono refrattari a qualsiasi regola e come tutti i ragazzi adolescenti, anche da noi, fanno di tutto per evitare i compiti: studiare, pulire, tenere in ordine, rispettare gli educatori, i professori ecc. Però quello che rispettano sopra tutti è P. Eduardo. A lui nessuno racconta una bugia, tutti lo rispettano perché la sua autorevolezza è riconosciuta da bambini e adulti. Un castigo come un turno suppletivo di raccolta di foglie nel giardino o la distribuzione dei piatti della mensa, è seguito da un affettuoso abbraccio con la speranza che qualcosa migliori.
Molto spesso però non è così. Ieri Marlon, un ragazzino di 17 anni che è tornato all'Hogar in cerca di lavoro è stato ricevuto con affetto e P. Eduardo l'ha mandato a tagliare dei rami degli alberi che incombevano sul tetto di un dormitorio. Dopo poco Marlon entra in cucina per bere una bibita. Vilma (la cuoca) subito dopo si accorge che è sparito il suo cellulare. Un semplicissimo cellulare molto vecchio. Facendolo squillare alcuni ragazzi dell'Hogar lo trovano vicino ad un raccoglitore di spazzatura. P. Eduardo, avvisato dell'accaduto, interviene immediatamente: paga con un sacco di biscotti Marlon per il lavoro svolto fino a quel momento. Marlon andandosene, passa dove aveva lasciato il cellulare e non trovandolo se ne va in silenzio comprendendo l'errore commesso. Ovviamente non sarà più accolto con tanta fiducia. Ma ogni volta che ritorna un ragazzo che è cresciuto all'Hogar viene accolto con affetto e attenzione. E' quello che è successo con Fito. E' tornato a Tegucigalpa da Ocotepeque, un luogo che si trova ai confini con Il Salvador, dove è andato a vivere con alcuni parenti per sfuggire a malviventi che stavano minacciando la sua famiglia e che avevano già ucciso la sua mamma ed il suo patrigno. Ha impiegato 12 ore di autobus per arrivare. Il giorno dopo il suo arrivo con l'auto piena di regalini per i fratelli e delle casse di biscotti siamo in cammino. Andiamo in un Centro Episcopale a tre ore di cammino da Tegucigalpa, per incontrare i fratelli Ariel e Nicolle, che Fito non vede da più di sei anni. L'incontro è commovente: i due fratellini timorosi e rigidi guardano di sottecchi Fito.Lui li avvicina, li abbraccia e fa vedere i giochi: un pallone per lui e una scatola di pettinini e fiocchetti per lei. LI lasciamo soli e con P. Edoardo ci mettiamo a chiacchierare con il Pastore Protestante della Comunità e l'Assistente Sociale. Lei ci racconta che i due fratellini le chiedevano continuamente di cercare la loro mamma. Non credendo veramente che fosse morta. Avevano bisogno di sapere di non essere soli al mondo. L'arrivo del fratello è stato un momento di verità, ma anche di speranza per questi fratelli. La prospettiva era quella di finire negli Stati Uniti come “familiari aggiunti” nella case dei fedeli della Chiesa Protestante a cui appartiene il Centro dove vivono attualmente.
Le ore passano e nel primo pomeriggio dobbiamo salutarci: i piccoli non vogliono lasciare Fito. Si aggrappano al fratello come se il mondo dovesse finire. Nascondo le lacrime, mi giro per non guardare. Le promesse di rivedersi e di mantenere i contatti, lasciano un segno di speranza. Nel viaggio di ritorno Fito ci raccontale sue impressioni e afferma la volontà di voler ricostruire la sua famiglia, con quel poco o tantissimo che gli rimane. Nel pomeriggio andiamo a comprare il biglietto di ritorno per Ocotepeque. Prepariamo le tre valige che sono comprese nel costo del biglietto e le riempiamo di tutto quello che può servire e anche vendere, per poter andare avanti. Arrivederci RodolFito. Anche questo succede!
Riprende la vita normale all'Hogar: io incontro famiglie, parlo con tutti e chiedo notizie di molti che ho conosciuto negli anni scorsi. Passo il tempo tra un elenco di vecchi ragazzi che P. Eduardo mi riaggiorna e telefonate di amici che mandano saluti a Marina, Franca, Manuela e Roberta: le prime volontarie del progetto.
Carla sta imparando a parlare lo spagnolo, ma ha qualche difficoltà nel chiacchierare con gli adulti. Trova un modo per imparare e realizzare un compito che la attrae: aiutare nella catechesi. Un giorno Alma, la catechista, telefona che si è fatta male a un piede e non può venire. La classe di catechesi è vuota. Evita, un'anziana signora che aiuta nel laboratorio di cucito non se la sente di tenere 10 ragazzi “scalmanati” che non l'ascoltano. Carla la rassicura: lei farà da aiutante in questo lavoro di supplenza. Ed ecco Carla che attraverso il canto insegna il nuovo comandamento che da il Signore: Amarci l'un l'altro come Egli ci ama. Ecco la canzone in Spagnolo che Carla impara e insegna ai ragazzi:
Un mandamento Nuevo nos da el Senor Que nos amemos todos, come El ama nos!!!
A gruppi di quattro e spiegando che cosa vuol dire amarci come ci ama il Signore Carla insegna ed impara. E' l'aggancio per comunicare con i ragazzi. Da quel giorno ogni pomeriggio sarà il compito che la lega ai ragazzi. Finalmente ha trovato un compito che può assolvere senza l'aiuto di nessuno. Tutti i ragazzi durante la ricreazione continuano a canterellare il ritornello che Carla ha loro insegnato. Che bello.
Un pomeriggio mentre sto facendo i puzzle con i ragazzi (sono proprio difficili ma alla fine ce la facciamo e li attacchiamo al muro), arriva la telefonata della zia di Toni Boden. Due ore prima l'avevano ammazzato in mezzo alla strada con alcuni colpi di pistola. Toni era cresciuto all'Hogar. Dopo le elementari (era molto bravo in matematica), aveva frequentato per un anno la Scuola Professionale dei Salesiani di Don Bosco dell'Istituto “San Miguel”, e lavoricchiava nel quartiere, dove viveva. Guidava i taxi tuctuc: delle motorette ricoperte con il posto del guidatore e due posti per i clienti dietro. Era un ragazzo che ritornava sempre all'Hogar. Era la sua casa dove era cresciuto. La sua mamma l'aveva “regalato” quando aveva tre mesi ad una “zia” (vicina di casa), zitella prima di partire per gli Stati Uniti e dimenticarsi di questo figlio. Con P. Eduardo siamo andati nel Barrio Nueva Suyapa, per pregare sulla bara di Toni e condividere con gli amici e la zia, la sua scomparsa. Una scolaresca accompagnata dall'insegnante entra nella sala adibita a “velatorio” (il momento di preghiera prima della sepoltura) e gli scolari vengono incitati dall'insegnate a guardare il cadavere attraverso il vetro della bara. Sono esterrefatta. C'era una curiosità morbosa, non tanto per l'assurda morte, ma per il corpo martoriato. Sembra che la vita non abbia senso e che la morte abbia un senso solo se si constata nel corpo con i segni della violenza.
E' dura dover dire che mi sono stancata di vedere e di raccontare di queste morti violente. Vorrei poter raccontare di storie belle, ma non posso tacere queste storie quotidiane che succedono a Tegucigalpa.
Ho rivisto Isis con le sue due bellissime figlie. José Angel che continua ad essere il perno per la sua famiglia. Anna Lidia con i suoi tre figli è sempre con lo stesso marito e si rammarica che l'Hogar non abbia potuto dare anche a lei una casa come l'ha data a molti. Wilmer che spera di poter permettere a sua figlia di crescere all'Hogar come ha potuto far lui, rimanendole però vicino e non abbandonandola come ha fatto il suo papà.
Sono stata a trovare Santos, un ragazzo con handicap cresciuto all'Hogar molti anni fa, che quando sente la mia voce chiamarlo dalla strada sterrata davanti ai massi che conducano alla porta di casa sua, comincia a gridare: “Tia Claraaaa”. Erano almeno quattro anni che non lo vedevo. Ha riconosciuto la mia voce senza neppure vedermi. Aveva bisogno di un materasso nuovo, perché quello che aveva era pieno di buchi. Ho promesso che glielo avrei portato e lui fiducioso dopo due giorni mi ha accolto buttando al suolo il suo materassino di gommapiuma bucato. MI ha chiesto di aiutarlo a fare il letto con il nuovo materasso che gli avevo portato.
Sono state cinque settimane intense. Fossero state anche di più, per esempio due mesi, un anno, non sarebbero sufficienti. A Tegucigalpa ci sono tante persone che ci vogliono bene e sanno che la solidarietà che è sorta nella nostra Parrocchia continuerà a sostenerli nel loro sforzo di affrontare la difficile realtà in cui vivono. I ragazzi dell'Hogar per salutarci ci hanno cantato la canzone “Voglio un milione di amici”
La nostra scelta di vita è qui nel nostro quartiere, a Margera, dove c'è molto da fare, ma da laggiù, da Tegucigalpa si comprende come le difficoltà hanno un diverso peso e noi qui abbiamo tutte le risorse e gli aiuti che ci permettono di vivere con dignità. Ci accomuna il lavoro, la costanza e l'impegno per raggiungere i miglioramenti che ci prefiggiamo. Se ci amiamo come il Signore ci ama, molti problemi sarebbero superati e i valori su cui si basa il nostro stare insieme: amore, solidarietà, umiltà, generosità, sincerità, dedizione, sarebbero la fortezza e la perseveranza del vivere cristianamente la nostra vita.
Carla e Clara